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Il Teatro di Figura non è un genere, ma una delle tante lingue possibili del teatro e in quanto tale può attraversare tanti generi e tante etichette. Dipende dai punti di vista, dai contesti, dai pubblici, dalle caselle ministeriali… Tradizione e innovazione, di là dalla ricerca che si fa tradizione o dalla tradizione che si fa ricerca. Ma qualunque sia la via, restano specifiche di fondo, tra l’attore e il suo doppio, tra l’animatore e l’oggetto animato, tra chi o cosa è veramente anima e chi o cosa è a servizio dell’anima. La composizione dello spettacolo ha così tante declinazioni da lasciare attoniti e stupiti, come emerge in maniera già chiara dagli articoli già pubblicati in questa rubrica. La parola ora passa a Riserva Canini (alias Valeria Sacco e Marco Ferro): una compagnia di ricerca nel senso più nobile del termine, che nella lingua delle figure ha trovato una sua via e un suo credo.

Alfonso Cipolla

DALLA DISPERSIONE ALLA COMPOSIZIONE
Riserva Canini (Valeria Sacco e Marco Ferro)

UNA PREMESSA (di Valeria Sacco)

Nel nostro lavoro di creazione ogni spettacolo è l’occasione per sperimentarci con tematiche, linguaggi e destinatari diversi. Ogni volta è un ricominciare: nuove domande, nuovi misteri, nuovi errori e inciampi da attraversare, voli e tuffi per cui entusiasmarci. Il nostro lavoro di scrittura scenica è cresciuto e cambiato con noi, spettacolo dopo spettacolo, in un ragionare a due teste, due cuori, quattro mani e un imprecisato numero di desideri e urgenze.

Ciò che ci ha insegnato a lavorare assieme nella composizione della scrittura sono state proprio le figure, il giorno in cui, provando il nostro primo spettacolo per burattini in baracca, La triste storia di un altro diavolo, nel 2004, un piccolo burattino con le corna da diavolo e il suo compagno di scena, da noi battezzato Uomo, si ribellavano ai nostri dialoghi scritti su carta e ci chiedevano, uno di cambiargli le battute e l’altro di lasciarlo muto. Il nostro Uomo, quel piccolo burattino che noi stessi avevamo plasmato e che mentre modellavamo nella creta ci aveva suggerito di essere lasciato un po’ più abbozzato rispetto a tutti gli altri personaggi, meno definito, quasi incompiuto, quel burattino ci stava tenacemente e silenziosamente suggerendo che lui una voce non l’aveva perché non aveva parole da dire. Che lui voleva aggirarsi muto per la nostra baracca e che sarebbe stato in grado di interpretare perfettamente il suo ruolo anche senza i nostri dialoghi. Ci abbiamo messo un po’ a dargli fiducia ma alla fine ci ha convinti, e aveva ragione.
Quella prima ribellione ha segnato un cammino, un’attitudine: stare in ascolto di ciò che costruivamo. Così è cominciata una relazione di reciprocità che anno dopo anno ci ha sempre più abitato.

Scrivere spettacoli per le figure, per noi, significa mettersi al servizio del mistero che portano, e tentare di esserne interpreti, nel senso di traduttori di ciò che vogliono raccontarci. Ma il paradosso sta nel fatto che queste figure siamo noi stessi a costruirle, mossi dal desiderio di dare forma a dei personaggi, dei fantasmi, delle paure, delle memorie personali e collettive di cui vogliamo parlare, e pertanto, per quanto sconosciuti siano, da noi vengono, di noi parlano, di noi stessi ci raccontano. Ecco questo ci sembra essere il circolo virtuoso del lavorare con figure e scrivere per loro.

DALLA DISPERSIONE

Questa parola che Philippe Genty mi ha messo in capo nel lontano 2008 ben esprime il primo movimento da cui prendono vita i nostri lavori. Tutto comincia da un’abbondanza
non contenuta: letture pertinenti e impertinenti, raccolta di immagini, appunti, schizzi, disegni, musiche, film, in un incessante dialogo tra me e Marco. In mezzo a questa confusione assieme ci perdiamo, prendiamo strade opposte e convergenti, ci inabissiamo e poi ricompariamo, ci esaltiamo e discutiamo. Nell’abitare questa confusione iniziamo a
mettere a fuoco dei punti di incrocio, delle corrispondenze, dei riverberi. E allora lentamente iniziamo a frequentare questi crocicchi, a esplorarli sempre più, a dar loro tempo e spazio. La sovrabbondanza di stimoli spesso ci attira e ci fa fare a volte anche lunghe deviazioni, che poi, ormai non più sorprendentemente, si rivelano tanto depistanti
quanto necessarie. In questa sorta di inventario si comincia a delineare un paesaggio condiviso di centri nevralgici del tema di cui vogliamo parlare, di percezioni che vogliamo evocare, di contraddizioni in cui vogliamo entrare. Qui arrivano le prime figure, che spesso sono prototipi organizzati in estrema povertà: volumi, stoffe, carte, mani, volti che incarnano le prime dinamiche, le prime relazioni che in scena andiamo immaginando tra gli interpreti e le figure, tra le figure e lo spazio, tra la scena e il pubblico. In questo dialogo continuo i contorni dei prototipi da sfocati si fanno sempre più chiari. Il lavoro di improvvisazione con le figure si fa sempre più intenso. Chi è in scena sperimenta le figure, cerca di condurle seguendo il racconto di cui si è a lungo dibattuto, di ripercorrere le impronte che avevano lasciato nell’immaginario le figure ideali, di rendere tridimensionali le visioni, le intuizioni. Allo stesso tempo più le figure concrete si completano e diventano definitive, più esprimono il loro carattere, e portano contributi imprevisti allo sviluppo della scrittura scenica. Spesso sono proprio i limiti e le qualità formali di ciò che abbiamo costruito che si fanno perno narrativo. Perché la materia di per sé, tanto quanto un attore, ha un suo personale potenziale drammaturgico. Negli anni abbiamo accumulato esperienza, ora sappiamo quanto sia determinante scegliere un materiale piuttosto che un altro, una proporzione, un peso. Quanto l’intrecciarsi di forma e sostanza siano imprescindibili. Chi osserva da fuori restituisce a chi è dentro il suo lavoro: racconta ciò che vede, suggerisce strade possibili, sviluppi, interviene con proposte, apre nuove piste, propone cambiamenti. Ripercorre quel che l’altro ha fatto permettendogli di vedersi. Il lavoro è di grande reciprocità. E in questa alternanza lentamente le dinamiche, i passaggi e le parole necessarie si fanno centrali e il resto progressivamente si fa periferico, superfluo e si disperde.

ALLA COMPOSIZIONE (di Marco Ferro)

A lungo dispersione e composizione vanno di pari passo e noi le lasciamo dialogare e contaminarsi. Finché arriva un momento in cui la fase compositiva comincia a strutturarsi e a disegnare i suoi confini, ed è quando cominciamo a fare ordine. È una delle fasi più delicate, perché è il momento in cui si compiono quelle scelte che condizioneranno irrimediabilmente l’intero processo. Capita di trovarsi davanti a bivi che conducono ad altri bivi e mano a mano che procedi cominci a realizzare che – qualora avessi imboccato una pista sbagliata – sarà sempre più difficile tornare indietro. A quel punto non resta che affidarsi all’esperienza, all’intuito e forse, soprattutto, alla buona sorte. Ma nonostante non esistano ricette preconfezionate e infallibili, col tempo ci siamo fabbricati una bussola. Si tratta di quei quattro o cinque punti cardinali che ci fanno da guida e che qui proveremo a riassumere. A cose fatte, bisogna ammettere che non sempre gli esiti si rivelano all’altezza delle premesse, ma quanto meno fungono da promemoria, sono piccoli riferimenti che ci aiutano a orientarci durante l’impervio cammino di composizione e di “scrittura”.

Formulare le giuste domande.
Scrivere uno spettacolo, nel nostro caso, significa tenere insieme più elementi contemporaneamente: gli attori e i loro personaggi, le figure e i loro animatori, lo spazio, i volumi e così via. La parte più delicata, lo abbiamo detto, è quella della scelta, della selezione. Ma una volta che questi elementi cominciano a definirsi, l’errore più comune in cui rischiamo di imbatterci è quello di forzarli a fare ciò che avevamo immaginato. Ormai abbiamo capito che è una strategia che porta solo ulteriori problemi: sarà banale ma se una cosa non funziona è inutile cercare di farla funzionare a tutti i costi, dobbiamo fermarci, osservare e cercare di capire perché. E questo processo, alla fin fine, si riduce a una sola questione: trovare la giusta domanda. Ma è più facile a dirsi che a farsi. È come se – scrivendo uno spettacolo – stessimo scrivendo un gioco di cui dobbiamo, progressivamente, indovinare le regole.

Sforzarsi alla chiarezza.
Che poi significa far sì che lo spettatore abbia sempre un corrimano, qualcosa a cui aggrapparsi durante l’intero sviluppo dello spettacolo, anche quando le cose sulla scena si fanno complesse, ambigue o contraddittorie. Una chiarezza che non appiattisce, insomma, che non esclude la polisemia e il mistero che abitano la scena, ma che al contrario funge da strumento per attraversarli. Una chiarezza nelle azioni, nelle dinamiche, che mantiene nitido almeno il primo livello di lettura, quello più immediato, e che permette di mantenere viva l’attenzione nello spettatore, come a dirgli: è per te che abbiamo costruito questo gioco e se continui a seguirci, da qualche parte, insieme, vedrai che arriveremo.

Togliere, il più possibile.
Nel lavoro con le figure, uno dei principi fondamentali è quello del “tramite”. L’animatore si fa tramite per la figura. La figura, a sua volta, è tramite di qualcos’altro. Questa pratica, questo esercizio quotidiano, è diventato un principio che abbiamo trasferito anche nel nostro processo di scrittura: scomparire, il più possibile, per diventare un “tramite”. Togliersi di mezzo. E questo spesso significa togliere, ridurre, scarnificare, per trovare l’essenza. Naturalmente è anche una delle cose più difficili e il più delle volte resta un bersaglio a cui mirare, ma è bene tenerlo a mente. D’altra parte il teatro riduce lo spazio e comprime il tempo e – parafrasando Brook – bisogna rimuovere tutto ciò che non è necessario e intensificare ciò che rimane.

Vedere l’albero e la foresta.
Curare i dettagli mantenendo uno sguardo globale, una visione unitaria. L’opera – qualsiasi opera, anche quella apparentemente più semplice – quando è ben costruita è attraversata da una fitta rete in cui l’insieme degli elementi comunicano tra loro. Una sorta di microcosmo. E il compito che come autori ci troviamo a svolgere è quello di tutelarne l’organicità. Spesso è un equilibrio sottile, una questione di sfumature, di pesi leggerissimi, che richiede la massima cura. Ma il paradosso che rende ancora più complicata questa operazione, è che in fase di composizione e di “scrittura” con la precisione non bisogna esagerare. Perché in teatro lo spettacolo, alla fin fine, pesa interamente sulle spalle degli attori. Sono loro a farlo, la vita è tutta nelle loro mani. Bisogna lasciare che siano loro a trovare l’equilibrio finale. Non a caso un vecchio adagio zen recita: “Quando l’acqua è troppo pulita, i pesci muoiono”.

Due più due.
Uno degli aspetti cruciali che forse ci ha portato a eleggere le “figure” come insostituibili alleate del nostro processo compositivo, riguarda l’immaginazione. Il teatro è il tempio dell’immaginazione, poiché assistendo a uno spettacolo lo spettatore è sempre chiamato a riempire dei vuoti e, per quanto ci riguarda, le figure ne rappresentano la quintessenza.
Nella nostra pratica di scrittura questo “ingrediente”, questo contributo da parte dello spettatore – la sua immaginazione – è un elemento essenziale dal quale non possiamo prescindere. Scriviamo dei pieni e lasciamo dei vuoti e la nostra grande sfida è sempre quella di trovare l’equilibrio giusto. “Lascia che sia lo spettatore a fare due più due uguale quattro. Te ne sarà per sempre grato” diceva Billy Wilder. In fondo scriviamo e creiamo con le figure, anche per questo: perché la loro vita, più di tutte, dipende dall’immaginazione dello spettatore. Ha bisogno della sua partecipazione e della sua complicità. E questa è una delle non ultime ragioni per cui amiamo farlo. Tenere viva la semplicità di questo atto, che il contemporaneo sembra aver atrofizzato, che è immaginare.