Trascrizione integrale della restituzione orale di Vito Minoia, invitato come osservatore speciale di Simposio N°1, le declinazioni sociali dell’uso della figura e dell’oggetto animato, iniziativa organizzata da UNIMA Italia in collaborazione con il Teatro Bertold Brecht, che si è svolta a Formia dal 21 al 23 luglio 2023.

Vi porto i saluti di Mariano Dolci, che ho sentito ieri sera. È felicissimo di questa iniziativa, perché sapeva che qui accadeva qualcosa di importante. Qualcosa che possiamo considerare storicamente importante, mi sento di dirlo in tutta franchezza.

Si tratta di un’iniziativa molto partecipata e ben organizzata, strutturata in modo equilibrato e sensato. Avendo avuto l’opportunità di parlare con gli organizzatori, ho recepito l’evoluzione del percorso dall’ edizione zero dello scorso anno all’edizione attuale.

Questa prima edizione di Simposio coinvolge concetti essenziali che sono parte di una ricerca importante nell’evoluzione del pensiero educativo.

L’idea di Simposio di comprendere, all’interno di tre stanze e laboratori vissuti, aspetti diversificati che si concentrano sull’unità della persona, è un surplus di quello che può accadere nelle riflessioni di carattere formativo in generale.

Il titolo di questa iniziativa, ‘Le declinazioni sociali dell’uso della figura e dell’oggetto animato‘, abbraccia una serie di aspetti sociali che non possiamo sottovalutare, compreso il livello prescolastico e scolastico. In quanto docente universitario specializzato in didattica dei contesti extra-scolastici, non posso fare a meno di notare che in questo titolo è compreso tutto un percorso unitario, che rivela integrità.

Lo scorso anno, quando le stanze erano organizzate intorno a tempi, spazi e relazioni, sono stati affrontati concetti chiave che hanno condotto agli argomenti di quest’anno. È bello vedere che gli osservatori dello scorso anno si sono impegnati in una staffetta per condurre i laboratori quest’anno. Questo dimostra il desiderio di coinvolgere sempre più persone, inclusi i nuovi partecipanti che stanno già prenotandosi per il prossimo anno.

Ho preso alcune note e cercherò di leggerle per essere il più preciso possibile. Tuttavia, vorrei sottolineare che questa è solo una prima restituzione.

Come avete già detto, molti di voi condividono i tempi della riflessione, anche con maggiore distanza, permettendo di decantare ulteriormente le esperienze vissute in così breve tempo. Questo è fondamentale e importante. Desidero esprimere apprezzamento per l’idea di continuare a mantenervi in contatto e di produrre materiali anche nel corso dell’anno. È davvero un aspetto stimabile.

Sarebbe bello se poteste fornire una testimonianza durante il prossimo convegno organizzato dalla rivista Catarsi Teatri delle Diversità, che dirigo, il 25 e il 26 novembre prossimi. Non so chi o come, ma vi chiedo di considerare questa possibilità e di portare una testimonianza forte, che sento innovativa e all’avanguardia, nell’ambito delle tematiche che sono trattate dalla rivista, che si occupa di documentare, studiare e fare ricerca negli orizzonti del teatro sociale ed educativo.

Questa iniziativa di Simposio è nata all’interno dell’UNIMA, e dobbiamo riconoscerlo immediatamente. Io credo che un obiettivo sia quello di espandere le applicazioni dei burattini, delle marionette, delle figure e degli oggetti animati nell’educazione, nel reinserimento sociale e in attività di cura. Questo ci apre a un orizzonte molto ampio, il che è positivo poiché ci permette di riconoscere un interesse delle potenzialità di questi strumenti al di là del loro uso teatrale e spettacolare.

Inoltre, questa iniziativa sta avvicinando altre figure professionali, come terapisti, educatori, pedagogisti, operatori sociali e animatori in varie forme. Trovo che questa sia una direzione molto interessante poiché promuove una collaborazione interdisciplinare. Credo che queste acquisizioni provenienti da diversi campi di intervento siano fondamentali per tutti i partecipanti, e rappresentino un terreno comune di confronto tra teorizzazioni ma anche di confronto su una regolare produzione di pubblicazioni, che dal mio punto di vista occorre stimolare.

Vorrei suggerire che i vostri lavori meritano di essere documentati attraverso pubblicazioni. Questo è importante per condividere le vostre esperienze e le vostre scoperte con un pubblico più ampio.

Guardando alla storia del teatro e del teatro di figura, notiamo che alcune dinamiche simili si sono verificate in passato. Ad esempio, Moreno invitò personalità del teatro a interagire con il suo teatro della spontaneità e a concepire lo psicodramma. Anche nel campo del teatro di figura, ci sono antecedenti importanti, come Madeleine Lambert, psicoanalista svizzera, pioniera nell’utilizzare burattini in terapia infantile. Cito anche Ornella Baragiola.

Se Moreno è arrivato a teorizzare una forma autonoma come lo psicodramma, quando esaminiamo la storia delle marionette e dei burattini, notiamo una dinamica diversa. Non è emersa una nuova forma autonoma, ma piuttosto si è verificato un incontro tra marionette e terapia, per citare l’associazione francese Marionnettes et Thérapie, che ha aperto la strada a riflessioni simili, come quelle che potrebbero derivare da questa sperimentazione.

È importante sottolineare che ci sono alcune differenze culturali nelle modalità di utilizzo di marionette e burattini, che variano tra l’Italia e la Francia, ad esempio.

Vale la pena approfondire la definizione di termini chiave tramite un glossario, specialmente quando si confrontano le diverse pratiche in Italia e all’estero, o in altri contesti culturali con terminologie precise.

È importante notare che il termine ‘terapia’, anche nell’associazione francese, non si riferisce esclusivamente a interventi nel campo terapeutico. All’interno dell’associazione, sono nate esperienze molto diverse per esplorare un ampio spettro di significati. La considero come un riferimento per il lavoro che può crescere qui, rispetto a questa esperienza particolare e innovativa.

La necessità che ci si ponga degli interrogativi sul senso dei termini, che continuano a proporsi e a circolare in un dibattito permanente, ci porta a considerare un punto importante: la non cristallizzazione dei termini e la loro continua evoluzione. In questi tre giorni, questo desiderio era palpabile.

Come allievo di Mariano Dolci, vorrei menzionare il suo pensiero a riguardo. Dal suo punto di vista, egli suggerisce di utilizzare un concetto che in francese esprime bene questa unione tra le due parole ‘marionette’ e ‘terapia’. Egli propone di cercare tra le due parole, sottolineando che ciò che conta è ciò che accade quando queste due dimensioni si incontrano. È significativo ciò che emerge da relazioni durature che si sviluppano tra questi ambiti, nonostante siano distinti.

È opportuno guardare alle potenzialità degli strumenti. La circolazione delle esperienze, delle acquisizioni empiriche, dei tentativi di teorizzazione da parte di operatori diversi, come siamo qui noi in questi giorni, sia per formazione che per campi di intervento, accade in un ambito in cui siamo pur sempre tutti ancorati all’uso della figura e alle ricerche sulle potenzialità della mediazione che questa figura può esercitare.

È bene fare delle riflessioni sul campo formativo: io riconosco ovviamente una grande dignità allo strumento, alla sua storia, tradizione e artigianalità; se oggi questo strumento è conoscibile è perché si è preservato attraverso anche delle tradizioni familiari che lo hanno portato fino qui a noi.

Quello che stiamo vivendo, al di là di quella che può essere una formazione professionale stretta, che è più pertinente all’uso artigianale degli strumenti acquisito nella storia e nel tempo, io la vedo come una sorta di supplemento di formazione che il vostro gruppo esprime su base volontaria e questo è notevole.

Questo approccio non è solo rivolto a burattinai e marionettisti, ma è anche aperto ad altri operatori sociali e in educazione. Ciascuno, tornando al proprio contesto professionale, cerca di adattare ciò che ha imparato, in un’ottica di formazione continua.

Dal mio punto di vista, sarebbe bello organizzare una tradizione di questa ricerca che si sviluppi nel corso del tempo. Questa è un’esperienza destinata a crescere, sin tratta di una ricerca che richiede dei tempi lunghi, occorre considerarli, non pensare che si tratti solo di un attraversamento.

La versatilità del teatro di animazione offre infinite possibilità e dispositivi immaginabili, rendendo possibile una varietà di collaborazioni e interazioni tra burattinai, marionettisti e altri professionisti, come educatori, psicologi, terapisti, sociologi e pedagogisti.

Oggi, in questa restituzione che abbiamo appena condiviso e vissuto, si percepisce bene. Ciascuno di noi può valutare l’uso di approcci più semplici e veloci, ma allo stesso tempo è prezioso quando si sceglie di adottare metodi che richiedono più tempo, poiché mirano a sviluppare un senso di identità. I tempi più lunghi sono necessari per costruire rapporti significativi, ed è quello che si fa quando si ha a che fare con una sperimentazione sul linguaggio.

In educazione e terapia, ogni nuova tecnica possibile potrebbe avere i suoi pregi e limiti, poiché può favorire l’espressione in modi diversi. In questo contesto, mi viene in mente una citazione di Mariano Dolci, che parla delle differenze tra burattino e marionetta che esercitano differenti influenze psicologiche sull’animatore. Il burattino può suscitare spontaneità nell’animatore, mentre la marionetta richiede una dimensione progettuale più definita.

Qui c’è una vocazione che è propria della ricerca, ossia quella di cercare di individuare delle soluzioni per adattare le tecniche di costruzione e di animazione a ogni individuo, tenendo conto dei contesti vari. Una sperimentazione condotta anche personalmente in carcere, avendo sviluppato progettualità su Jarry, Garcia Lorca, su lavori che arrivavano da una tradizione specifica del teatro di burattini, in particolare.

Qualcuno potrebbe pensare che le marionette a filo siano inadatte in certi contesti, ma abbiamo visto recentemente esempi in Francia e poi in Italia, con Remo di Filippo e Rhoda Lopez, nel carcere di Ascoli Piceno, un’esperienza che sto seguendo, dove il lavoro di costruzione e animazione di marionette a filo ha ricevuto un’accoglienza inattesa da parte dei detenuti.

Anche questa idea può essere superata, in generale, e lo state facendo benissimo in questo gruppo allargato di lavoro e di ricerca.

In generale, il teatro diventa un atto politico in diversi contesti. È un mezzo per esprimere profonde motivazioni, specialmente quando si lavora con gruppi come i detenuti o le persone immigrate.

Questi contesti sollevano questioni fondamentali dell’umanità e della società, e l’arte teatrale offre un’opportunità per esplorarle: l’escluso si presenta al mondo con la sua personale visione, per potersi esprimere, come abbiamo visto in questi giorni nelle fotografie del laboratorio di Mariella Carbone.

Come ha affermato Padre Daniele ieri sera, si tratta di restituire dignità. Questo concetto è centrale e rimanda all’immagine originaria del teatro come arte della polis, un’arte che coinvolge la comunità.

Anche Matteo Corbucci, che ha condotto il suo laboratorio utilizzando un approccio pedagogico ed educativo diverso, tornando alla prima infanzia, ha esercitato un atto politico importante.

Ieri ho sentito, nelle parole di alcuni, che “stiamo facendo una ‘rivoluzione”: attraverso quest’azione concreta, sono totalmente d’accordo che stiamo portando avanti una forma di cambiamento.

La distanziazione che è intrinseca al teatro di animazione può facilitare l’espressione, permettendo di entrare e uscire da un ruolo, simboleggiata anche dalla manipolazione di oggetti concreti. Questo offre una grande risorsa per stimolare l’espressione. Tutto può essere animato in scena, che siano oggetti o personaggi, e possono simboleggiare una canzone, stagioni, sentimenti o astrazioni. C’è un’infinita libertà in questa forma di espressione.

È nota la tendenza del burattinaio nel “lasciarsi prendere la mano”: quando c’è qualcosa in più che emerge rispetto a quello che ha programmato, possono effettivamente emergere parti della personalità meno controllate, favorendo una maggiore consapevolezza, nella continuità delle sedute.

Anche il lavoro di Mariella Carbone, in particolare il suo lavoro nell’arteterapia, si inserisce perfettamente in questa prospettiva di presa di coscienza attraverso un lavoro personale, autobiografico, che vada oltre la ricerca strettamente professionale, poiché coinvolge il personale e la dimensione umana. Come lei ha detto, i terapisti fanno un loro percorso personale, inizialmente. Tutto questo va nel senso di quel tipo di attività che contribuisce ad espandere una consapevolezza.

Nel laboratorio di Silvia Cristofori, un aspetto che ho apprezzato molto, che si riflette in tutti i tre laboratori e in tutta la ricerca che si sta sviluppando, è l’idea di una ‘learning community’, una comunità di apprendimento all’interno del gruppo. Questo concetto, che ruota attorno all’idea dell’apprendere in generale, imparando ad ascoltare, vedere e osservare da diverse prospettive, prelude a pensieri, logiche, interrogative alla costruzione del dare spazio e stare in un contesto, dell’interagire, del progettare e costruire processi e procedure che favoriscono le relazioni.

Il lavoro di gruppo è un contesto potente per l’apprendimento. Sono proprio le équipe artistiche che costituiscono un esempio concreto di come un gruppo di apprendimento possa sviluppare idee, teorie e interpretazioni della realtà.

La documentazione è un altro strumento potente in questo processo. Siete nella giusta direzione, anche nella restituzione di oggi, dove è ben presente la documentazione di quello che è successo in questi giorni; volendo si può andare oltre, leggere, rileggere, anche con più distacco, costruendo anche pubblicazioni che fermano lo stato del lavoro in progress.

Un gruppo di apprendimento, come il vostro, è un insieme di persone emotivamente, intellettualmente ed esteticamente coinvolte nella soluzione di problemi, nella realizzazione di prodotti, e nella costruzione di significati. Dove si apprende in modo autonomo ma anche attraverso le modalità di apprendimento degli altri. Questo è scritto nel vostro Manifesto, è tra gli obiettivi che vi siete posti: come i gruppi formano e funzionano, è un interrogativo importante, e non può che essere significativa, in questi termini, la collaborazione.

È importante sottolineare che non tutti lavoriamo nello stesso modo, non siamo identici: è importante che he questa ricerca sia nata in seno ad UNIMA, che è l’associazione più longeva a livello mondiale degli operatori che hanno sentito questo bisogno di collaborazione e di lavoro di gruppo. È bello pensare che UNIMA torni ad esercitare, attraverso questo vostro lavoro, un ruolo vero e proprio nel campo delle varie associazioni che si occupano delle arti performative.

Dobbiamo considerare le resistenze culturali che limitano la nostra capacità di esplorare nuove possibilità e opportunità di apprendimento. È un interrogativo importante da esercitare: quali sono le resistenze culturali che ostacolano l’adozione di approcci più libertari nella ricerca all’apprendimento individuale e di gruppo?

Potremmo citare esempi come l’educazione inclusiva, l’educabilità per le persone in situazione di disabilità, o, in modo differente, nel settore della devianza e del carcere, o l’umanizzazione nei processi di cura. Il pensiero va a Basaglia e al percorso che è riuscito ad attivare attraverso il coinvolgimento di artisti come Giuliano Scabia, che è stato a invitato a Trieste nel 1973.

Anche l’approccio dell’Universal Design for Learning merita menzione, poiché si colloca nell’orizzonte del vostro pensiero e della vostra ricerca. Si tratta di un approccio all’insegnamento finalizzato a offrire pari opportunità di successo a tutti gli allievi tenendo conto del fatto che ciascun individuo apprende in modo diverso, utilizzando modalità di coinvolgimento specifiche, metodi di acquisizione dell’informazione e mezzi di espressione differenti per dimostrare ciò che si impara. Abbiamo vissuto pienamente questa dimensione in questi giorni: è auspicabile vedere un fiorire di progettazioni inclusive, che diventano poi progettazioni di vita vere e proprie.

La documentazione, insisto, è fondamentale in questa prospettiva poiché garantisce la stretta correlazione e interdipendenza tra l’apprendimento individuale e quello di gruppo, pur conservando le qualità esclusive di entrambi gli approcci. Rivisitare, dare nuovamente senso alle esperienze e riflettere su come sviluppare le stesse esperienze più avanti, è un passo importante. Questo non significa solo rendere visibile ciò che già esiste, ma occorre “fare esistere”, (e anche questo oggi è stato vissuto insieme attraverso questa restituzione), rendendolo visibile e quindi possibile, nella progettazione e nella costruzione di contesti di apprendimento.

Questo vostro lavoro si colloca bene in una ricerca che in campo educativo ha avuto grandi maestri, da John Dewey a Maria Montessori, da Johann Michael Sailer a Jean Piaget. A partire anche dalle esperienze di Reggio Emilia, io credo che si apra un percorso ancora tutto da costruire.

Quando con Mariano Dolci, abbiamo deciso di documentare il suo lavoro trentennale all’interno dell’equipe di lavoro coordinata da Loris Malaguzzi, abbiamo esercitato il desiderio di documentare un percorso che non era stato ancora molto valorizzato e che potesse poi aprire delle strade.

Il testo Il Burattino sulla Scena Educativa è strettamente rivolto al lavoro nei nidi, nelle scuole dell’infanzia e nella scuola primaria, ma poi è bello esercitare delle contaminazioni, come faceva Mariano, come costruire un dialogo con i pazienti psichiatrici che incontrano bambini così piccoli. Ci piacerebbe documentare ancora ulteriormente questi aspetti per offrire ulteriori stimoli alla ricerca.

Abbiamo anche sperimentato in carcere, coinvolgendo i detenuti e le detenute nella costruzione di spettacoli con i preadolescenti che, autorizzati dai loro genitori, guidati da docenti competenti, sono entrati in carcere e hanno costruito spettacoli che sono stati presentati alla comunità, proprio in chiave inclusiva.

L’esperienza di Reggio Emilia sappiamo che non si è diffusa largamente in Italia, ma questo vostro lavoro potrebbe essere un inizio che recupera i fili della memoria e li amplifica. Certo negli Stati Uniti questo è avvenuto grazie a persone che se ne sono fatte carico all’inizio anche volontariamente, persone che io stesso ho conosciuto quando con Mariano siamo stati invitati a curare dei laboratori al museo Eric Carle, per gli atelieristi del museo stesso; mi riferisco a Lella Gandini, lei è stata il cuore di questo sviluppo di un lavoro che ha costruito una vera e propria alleanza con le scuole statunitensi con contesti di sperimentazione molto validi e ampi. L’ho intervistata, dando come titolo a questa intervista Educare gli educatori attenti. Anche qui si apre un percorso in linea con quello che state sperimentando.

Mi piace anche menzionare Howard Gardner, che ha seguito per anni l’evoluzione dei percorsi di Reggio Emilia e che ha sviluppato la teoria delle intelligenze multiple anche sulla base di queste sperimentazioni.

Quando alla Harvard University di Boston l’ho intervistato, facendo domande rispetto a quello che aveva osservato a Reggio Emilia (tema su cui ha scritto molte pubblicazioni che sono rinvenibili), è stato bello osservare la relazione che intratteneva con i suoi studenti, dove lui, settantenne, metteva a suo agio gli allievi durante le lezioni, alimentando uno spirito di ricerca, nel fare domande, nel costruire, nel sentirsi inclusi in un percorso di costruzione della conoscenza, e vedere come poi queste ricerche si moltiplicassero. Aveva ai tempi allievi che si interrogavano ad esempio sull’Homo Sapiens, con bambini e con altre persone, sul loro immaginare cosa l’Homo Sapiens avesse fatto decine di migliaia di anni fa, in un’evoluzione continua della propria presenza al mondo; o altri che si interrogano sui nuovi media digitali e di come questi rendano problematici alcuni aspetti come la veridicità, la privacy, la proprietà intellettuale o la partecipazione all’interno di una comunità. Sono interrogativi che si aprono ampi, profondi, e che possono coinvolgere molti contesti.

Un altro interrogativo importante che i suoi allievi stanno sviluppando è quello di come preservare e rafforzare l’educazione nelle arti liberali; questo ci riguarda da vicino e può certamente riguardare questo gruppo di lavoro, che arrivo ad identificare come un vero e proprio gruppo di ricerca.

Sappiate che i gruppi di ricerca, riescono a documentare bene un percorso di ricerca, se riescono ad avere una continuità di almeno dieci anni. Un decennio è necessario tutto, anche perché avete scelto la strada della creazione collettiva che richiede tempo, attenzione, eccellenza, come dice Gardner, che significa conoscere bene la materia, conoscere bene la buona pedagogia, conoscere bene le differenze.

Un educatore deve essere coinvolto, e quindi ritenere che insegnare sia importante, che sia una cosa primaria, per poi arrivare ad un’altra qualità primaria, che è l’etica, che significa comprendere quale sia la condotta adeguata da seguire nelle situazioni difficili, riflettere sulle scelte fatte e in futuro cercare di aggiustare adeguatamente le proprie azioni e il proprio linguaggio. Ecco, io l’ho visto in diretta, proprio in questi giorni, quando Silvia Cristofori ha detto che la riflessione fatta all’interno del gruppo l’aveva aiutata a concepire la stanza in modo diverso per i due gruppi successivi.

E poi è richiesta anche una responsabilità: verso i propri allievi, verso la materia che si sta trattando, e nel caso delle istituzioni, anche rispetto a queste; in questo caso, una responsabilità verso UNIMA Italia, che ha promosso questo spazio di riflessione; e poi la responsabilità importantissima verso i propri colleghi, che prelude a una responsabilità verso l’intera società civile.

È opportuno sviluppare delle buone abitudini come questa.  È possibile ed è necessario orientare le energie, la riflessione, per quelle che sono azioni corrette. E quando si soppesa anche uno sbaglio, un errore, questo serve anche a comprendere come gestire un cambio di rotta, e ciò non può fare altro che stimolare delle intelligenze multiple, come di e Gardner.

Io mi fermo qui, ma ho annotato in questi giorni tantissime altre cose, che preludono a ulteriori riflessioni.

Chiudo nel dire che sarò felice se accetterete di partecipare al Convegno della rivista Catarsi Teatri della Diversità, ad Urbania, in provincia di Pesaro Urbino, dove quest’anno dedicheremo anche uno spazio particolare ad Danilo Ferrari, che è un attore paraplegico in carrozzina, non si muove, non parla e che però, grazie alla sua insegnate di sostegno delle scuole superiori, Maria Stella Colla, che ha accolto questa sua capacità di intenzionalità, è riuscito, in simbiosi con lei, a comunicare con gli occhi. Non solo si è laureato in Scienze dell’Educazione, è diventato giornalista, scrive per la rivista di San Francesco di Assisi, ha scritto dei bei pezzi per Catarsi Teatri delle Diversità, ma è anche autore. A novembre prossimo, al Convegno, presenterà il suo secondo libro che ha come titolo Punto di vista.

Anche questo, si sposa bene con quello che in questi giorni è emerso: punti di vista, al plurale.

Grazie.